"Troppo internet? Nozze annullate". E' il titolo che il quotidiano di Torino: La Stampa, in un articolo di Maria Teresa Martinengo, comparso sul quotidiano il 20 febbraio 2011 nella cronaca di Torino, dedica al problema delle separazioni e dei divorzi.
Nel sottotitolo dell'articolo si legge: "Novità al tribunale ecclesiastico. A Torino matrimoni cancellati perché il marito era schiavo dei social network. Il giudice: 'Si tratta di menti troppo fragili, incapaci di vivere un rapporto, confinate nel loro mondo virtuale' ".
Nota come vengono strumentalizzate le parole del giudice a fini psicologici. Nota come i frequentatori dei social network vengono associati a menti troppo fragili, incapaci di vivere un rapporto reale. Elena Lisa, sempre dalle colonne de La Stampa, intervista lo psichiatra, dove titola, riportando le parole del professionista: "E' una malattia vera. Noi proponiamo la terapia di coppia".
IAD (Internet Addiction Disorder) è il nome che viene coniato dagli psichiatri per questa "malattia". Per loro si tratta di una droga. E io che pensavo che la religione fosse l'oppio dei popoli, ora scopro che è Internet con i suoi social network ad essere l'oppio dei popoli o meglio, l'oppio delle coppie.
"Menti troppo fragili, incapaci di vivere un rapporto reale", hai capito! Menti fragili, ma che vuol dire "mente fragile"? Ma poi su quale base questi giudici stabiliscono quale mente è fragile e quale è robusta ? Conosco psichiatri che sono divorziati o separati dal consorte, sono menti fragili pure loro? No! Si tratta semplicemente di persone che, maturando, sono cambiate e si sono stufate della solita minestra, cioè del consorte petulante e dei loro obblighi coniugali per vivere con maggiore spensieratezza e senso di avventura la propria vita anche nei social network. Sì, perché quando un rapporto di coppia diventa un cruccio o peggio una prigione, io mi chiedo: dove sta la schiavitù? Nel matrimonio o nei social network? Probabilmente in entrambi.
Questi pseudo-mariti che invece di pensare ad accudire il consorte e la prole, secondo gli impegni classici del matrimonio, si distraggono nei social network su Internet, facendo imbufalire le loro mogli, dimostrano quanto sia ipocrita l'istituto del matrimonio voluto da questa società patriarcale.
E' un po' anche la storia di Gesù-uomo che a trent'anni suonati, invece di pensare a sposarsi e a mettere su famiglia come si chiede ad un buon marito, andava in giro per la Palestina, socializzando con il popolo, facendo imbufalire non solo i farisei, ma anche i suoi famigliari che gli davano del matto.
"Gli angeli del cielo non si maritano e non si ammogliano", dice Gesù nel Vangelo di Luca e a ragion veduta.
Ma perché non ci può pensare la comunità, tutta la comunità cristiana, a prendersi cura delle mamme, dei papà e della loro prole? Troppo difficile o troppo impegnativo? Possiamo essere noi cristiani, cittadini del mondo, a prenderci cura l'uno dell'altro? Certo che possiamo. "Amatevi gli uni gli altri" è il comandamento nuovo di Gesù. Scriviamolo anche nella Costituzione, se ci crediamo! Alla luce di questo insegnamento, che bisogno c'è di sposarsi, se non quello di affermare un diritto di proprietà sul coniuge e sulla prole davanti alla comunità ? Che bisogno c'è di sancire con il matrimonio una unione che ha il sapore di un contratto commerciale e mercantile chiuso su se stesso, dove i contraenti alla fine restano abbandonati a loro stessi, in mezzo ad una società che se ne strafrega di prendersi cura l'uno dell'altro e di praticare una vera comunione dei beni?
Nel matrimonio, a mio avviso, la comunità cristiana scarica colpevolmente le proprie responsabilità di educazione e formazione della prole esclusivamente sulle spalle del marito e della moglie, cioè sui coniugi che, per rivendicare un loro diritto di proprietà esclusiva sui figli, accettano di buon grado, come contropartita sociale, tali incombenze, nell'illusione di proseguire la propria stirpe, senza valutare se poi hanno le forze e l'entusiasmo per sopportare tali oneri nel tempo, esclusivamente sulle proprie spalle.
La comunità cristiana che fa? Invece di assumersi le proprie responsabilità condividendo le responsabilità di educazione e formazione della prole, facendosi padre e madre l'uno dell'altro, insieme con i genitori, innalza una muraglia sociale biologica e psicologica, stando a guardare e a giudicare i coniugi che, nella separazione e nel divorzio, sanciscono il proprio fallimento e quello della famiglia.
Internet come del resto altre realtà tipiche del mondo lavorativo, riescono a mettere bene a nudo tali ipocrisie coniugali, comuni a molte comunità confessionali, da che mondo è mondo.
Giovanni Tartara
"Nel matrimonio, a mio avviso, la comunità cristiana scarica colpevolmente le proprie responsabilità di educazione e formazione della prole"
Quello psichiatra è uno dei tanti che vogliono screditare non la "comunità cristiana", ma il Cristianesimo distorcendo le parole di Gesù Cristo.
Usa la frase di Gesù Cristo - "Amatevi gli uni gli altri" è il comandamento nuovo di Gesù. Scriviamolo anche nella Costituzione, se ci crediamo - per dire che bisogna fare una famiglia allargata dove i figli non sanno più chi sono i loro genitori, una società dove non sono i genitori ad assumersi la responsabilità di educare i figli.
Poveri quelli che si fanno guidare da simili psichiatri...
... A meno che io non abbia capito niente di quello che voleva dire quello psichiatra, ma in questo caso non è colpa mia ma di quello psichiatra che non ha saputo essere chiaro...
Prisma
Giovanni, dovresti vedere i video di Serafino Massoni su YouTube. Lui sostiene che il matrimonio è una invenzione patriarcale per dare all'uomo la certezza della paternità. Secondo me ha ragione.
Io non ci credo molto nel matrimonio come sacramento e se leggo i fatti di cronaca scopro che ci sono tanti assassini di donne e dei loro figli da parte di mariti esasperati dalla loro consorte. Ci sono anche tante donne esasperate dal marito e che fanno le corna come i loro mariti e ci sono diverse inchieste giornalistiche dove si dice che i test di paternità del dna svelano che molti figli non sono figli del loro papà.
E poi basta guardare alla nostra classe politica per rendersi conto dell'ipocrisia matrimoniale. Loro sì che sanno dare l'esempio.
Giovanni Tartara
Dire che il matrimonio è una invenzione patriarcale è assolutamente ridicolo, non capisco come una persona intelligente possa affermare una tale stupidità. Tanto è vero che in alcuni popoli primitivi, quando i coniugi non vanno d'accordo, è la moglie che scaccia il marito dalla casa, ed il marito con la coda in mezzo alle gambe deve tornare dai genitori rinunciando ad ogni avere guadagnato durante il matrimonio. Al più è da criticare la impostazione patriarcale del matrimonio, che peraltro oggi è molto indebolita
E non capisco nemmeno la tua affermazione che non credi al matrimonio come sacramento perché nelle famiglie ci sono perfino degli assassinii: allora non dobbiamo credere al comandamento non uccidere perché ci sono assassinii? Fammi capire, perché ciò che dici è assolutamente incomprensibile.
Prisma
Giovanni, il matrimonio come invenzione patriarcale ha una sua logicità se finalizzata alla certezza della paternità. La donna è sicura della maternità perché i figli nascono dal suo ventre. Invece, all'uomo chi gli dice che il figlio è suo? Come fa l'uomo ad essere sicuro che quello è suo figlio e non di un altro uomo? Occorre inventare una sorta di "gabbia" psicologica e legale dove imprigionare la donna affinché resti fedele all'uomo e dove i rapporti sessuali occasionali con altri uomini siano ridotti al minimo al fine di evitare possibili dubbi sulla paternità del figlio. Questa "gabbia" psicologica-legale si chiama matri-monio monogamico, dove la donna in cambio della sua fedeltà all'uomo e quindi per garantirgli la certezza della paternità, riceve dall'uomo il suo patri-monio per consentirgli di accudire alla prole con un minimo di serenità. Patrimonio inteso come lavoro stabile, risorse materiali e affettive tese a dare alla donna una certezza di continuità nel sostegno e nell'accudimento materiale dei figli.
Il matrimonio come sacramento, invece a me convince poco perché Gesù per prima cosa non risulta che si sia mai sposato. Se ci avesse tenuto al matrimonio, sarebbe stato il primo a dare il buon esempio e a sposarsi e la cosa avrebbe avuto notevole rilievo nei Vangeli.
Secondo, tra le altre cose, Gesù dice chiaro e tondo che i figli della luce dopo la risurrezione non si ammogliano e non si maritano, ma vivono come gli angeli del cielo. Non è una affermazione di poco conto.
Chiarisco che non sono contrario al matrimonio che è una scelta di vita come tante altre e che se vissuta nel vero sacramento realizza il "Gesù in mezzo", secondo l'affermazione stessa di Gesù: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro".
Giovanni Tartara
Il fatto che Gesù non era sposato non significa nulla: la sua missione, per la quale è venuto al mondo, era un'altra e nessuno è chiamato a fare il Messia come ha fatto lui, quindi questo argomento non è valido. Anzi, Egli ha reso più vincolante il matrimonio rifiutando il ripudio.
Se non vuoi vederlo come sacramento, la tua opinione è rispettabile; io non sono un teologo e non te lo posso contestare con argomenti sostanziosi. Vediamolo allora equiparabile ai voti solenni dei religiosi, vincolanti per la vita: agli effetti pratici non sposta nulla.
Prisma
Giovanni, io vedo il matrimonio più come un sacrilegio che un sacramento, soprattutto quando il sacerdote legge agli sposi gli articoli del Codice civile. Mi dispiace che la Chiesa mescoli il sacro con il profano. Il Codice civile non è sacro, i Vangeli sono sacri. Ma tant'è.
Giovanni Tartara
Parlare di sacrilegio mi sembra eccessivo, ma ci devo pensare.
Certo è discutibile questa commistione: nel merito non c'è alcun male se gli articoli del codice civile non sono contrari alla morale cristiana, ma comunque i rapporti fra Chiesa e Stato soffrono ancora delle conseguenze del potere temporale dei Papi.
Ma non dimentichiamo che sono passati "solo" 50 anni dal Concilio Vaticano II e dalla presa di posizione di Paolo VI avverso al potere temporale, che però lascia ancora dei residui, primo fra tutti lo Stato della Città del Vaticano, che dalla Chiesa (clero) è visto come un necessario baluardo per la difesa del Papa, in questo modo, però, manifestando una scarsa fede in Gesù Cristo, il quale nella sua predicazione "non aveva un luogo dove posare il capo".
Ma, ripeto, 50 anni sono pochi per rimediare ai guasti di mille anni di potere temporale.